Per scegliere un percorso avevo bisogno di pensare ad una meta, o meglio, ad un “approdo”, ma come spesso mi capita, mi sono posta un quesito, come docente, quindi educatore, ma soprattutto come “uomo sociale”, che definendo la sua identità nel momento in cui comunica con l’altro, definisce anche quella altrui; e cioè: se comunico, nel senso di “costruire con” o porre in comune (dal lat. cum+munire) mentre educo, oppure se, mentre comunico per far conoscere, educo.
Non so se troverò la risposta, ma poiché questo interrogativo è stato una conseguenza della lettura dei testi proposti, è in essi che la cercherò, mendicandola a chi conosce più di me, sperando, quantomeno, di “…fare un passo avanti” per giustificare il mio “bisogno di comunicare” , quel mio tendere alla Parola che fa parte della natura del Pensiero.
“…Non si può né vedere grande né sentire profondo
quando le parole che veicolano i pensieri e le realtà
hanno un raggio corto, un solo corso di spendibilità,
o aderiscono a un solo aspetto…”
E’ da questa citazione che ho preferito partire perché essa per prima mi ha colpito e, stimolando e incuriosendo il mio pensiero, mi ha permesso di riflettere sulla grande responsabilità nell’educare.
Ecco, la parola come fulcro, radiale, che può giungere in ogni dove, la parola che è il mezzo, il “veicolo/legame tra il vero io e il vero tu” , la parola che “aderisce, evoca risveglia, accende quando è il caso e che sa coniugarsi e alternarsi a profondi silenzi!”
Cosicchè, calandoci nel vivo della comunicazione, attraverso sentieri e viottoli, evitando il pericolo insidioso delle “mani rozze” per giungere alla “sensibilizzazione” attraverso un reale “esperire interiore”, vediamo come le parole mutano la lunghezza del loro raggio quando si situa l’uomo nella sola finitezza o nell’apertura alla trascendenza. Pensare all’uomo nella sua finitezza vuol dire depauperarlo di qualcosa di importante e fondamentale per la sua crescita in tutti i sensi: l’uomo è Mistero…più si scava, più se ne sente la profondità ; pertanto per aiutare l’altro a diventare quel singolo che solo lui può essere, dobbiamo far sì che le nostre parole abbiamo un raggio lungo per colpirlo nel profondo senza però lasciare traccia, prospettando varie strade, dandogli gli strumenti per poi lasciarlo fare da “solo, con l’aiuto di un altro”, dandogli la “scossa/costrizione” che deve portarlo alla liberazione integrale per uscire dalla ignoranza interiore che lo tiene prigioniero, che gli mostra solo ombre…(mito della Caverna) e fargli provare l’esperienza unica di essere reso libero. Solo così potrà vedere grande, senza rischio di “strettimento” dell’umano, e scoprirà, nel profondo, la vera essenza del conoscere, guardando in alto, vedrà la luce dell’apertura all’altro.
Ma come ciò può avvenire?
“Provati al Fuoco del Rapporto diretto con gli studenti”, come afferma la Ducci, si può giungere all’incontro con l’altro e quindi con se stessi attraverso il dialogo.
Come affermano Ebner e Buber, dialogare è costitutivo della persona in quanto“l’uomo è tale perché ha la parola e la parola presuppone il rapporto al Tu”. Ma deve essere un dialogare vero, inteso come un “esperire profondo”, reale, interiore, un esperire umano! E’ ciò che deve portare all’ “incontro” con l’altro; è quel dialogo minore che resta anche quando cessano le circostanze eccezionali! E’ una strada aperta a tutti, ma che porta in sé il “rischio”: decidere da soli, scegliere senza essere condizionati, significa mettersi in discussione ed essere pienamente responsabili del proprio agire, sentirsi coinvolti pienamente fino a diventare liberi nella verità. La verità non è insegnata, ma è il dialogo che la rende possibile, conoscibile e intuibile. Lo stesso Socrate, infatti, non vuole insegnare nessuna verità assoluta, ma fornire l’opportunità di conoscere. Strumento privilegiato la parola, il logos. Socrate elaborò un metodo proprio di discussione, indicato solitamente nei due momenti della maieutica e dell’ ironia.
Facendo uso della Maieutica, il filosofo di Atene intendeva "tirar fuori" all'allievo pensieri assolutamente personali, per cui la risposta si presentava come libera conquista individuale a cui il filosofo contribuiva col compito di semplice stimolo e partecipazione, al contrario di quanti volevano imporre le proprie vedute agli altri con la retorica e l'arte della parola come facevano i sofisti.
L'arte dell'ironia presentava caratteri di maggiore provocazione per la suscettibilità che poteva incontrare. Con essa, infatti, venivano poste preliminarmente in "ridicolo" le presunte certezze dell'interlocutore, in maniera tale che la discussione potesse partire da una uguale situazione di incertezza e di ricerca.
Con questa operazione Socrate voleva dimostrare che si può essere sicuri di condurre a sano compimento il dialogo, se gli interlocutori interessati vanno alla ricerca dei "valori" utili e non pensino dogmaticamente di esserne già in possesso: le risposte sono conquiste non verità rivelate.
E questo suo modo particolare di “insegnare” a chi decideva liberamente di ascoltarlo, incuteva una tale paura in coloro che non capivano, da essere portato in tribunale alla veneranda età di settant’anni! Ma allora dialogare è pericoloso!? Sì, se si punta all’educare alto e profondo, dichiarando di “sapere di non sapere”, ponendosi con gli allievi in un dialogo alla pari e “tirando fuori” la singolarità di ciascuno. D’altronde “una vita che non faccia continue ricerche su se stesso e sugli altri non è degna di essere vissuta!”
La sua difesa è ancora predicazione e insegnamento anche davanti ai giudici: comunica, anche con l’esempio la verità, per essere fedele alla divina voce, continuando a dire che non avrebbe rinunciato alla sua indagine e non ritirate le sue affermazioni; non mostra (perché non sarebbe decoroso né per lui né per la città stessa) i familiari piangenti a implorare la sua salvezza perché, ricorda, i giudici sono lì a professar giustizia, non a fare grazie di giustizia e a largire misericordia!
Socrate non sfugge alla sua condanna poiché «è meglio subire ingiustizia piuttosto che farla», egli accetta di morire anche perché, non si sa se la morte sia effettivamente un male, in quanto, o è un sonno senza sogni, oppure darà la possibilità di visitare un mondo migliore dove, s'incontreranno interlocutori migliori con cui dialogare.
Quindi egli continuerà persino nel mondo dell'aldilà a professare quel principio a cui si è attenuto in tutta la sua vita: il dialogo.
Sembra proprio che comunicando educhi!?
Al contrario, invece, Nietzsche si presenta essenzialmente quale uomo e tipico formatore di uomini, genio e educatore: comunicatore di valori ed esperienza.
La comunicazione, come strumento di relazione e autocoscienza, appare inadeguata e destinata, come l’umanità a tramontare, ad essere superata, lasciando il posto ad una nuova forma di comunicazione che tragga la propria forza dalle oscurità e dall’inconoscibilità dell’interiore superando l’inattualità del contemporaneo e del condiviso per liberare la volontà creatrice ed indipendente. L’educatore di Nietzsche deve essere quello che è stato per lui Schopenhauer: “I tuoi veri educatori e plasmatori ti rivelano quale è il vero senso originario e la materia fondamentale del tuo essere…in ogni caso difficilmente accessibile, impacciato, paralizzato: i tuoi educatori non possono essere niente altro che i tuoi liberatori” . Tanto più che “ la tua essenza non sta nascosta nella tua profondità, ma sta in alto, immensamente al di sopra di te”.
Nel testo, Nietzsche affronta il problema educativo indicando una via verso la grandezza e i compiti universali, ribellandosi alle convenzioni senza vivere contratti, quindi allontanando la pigrizia e senza sfuggire al proprio genio. E nell’educare o ci si concentra sulla forza più caratteristica dell’individuo oppure si mira a creare un rapporto armonioso tra tutte le forze esistenti. Nell’uno e nell’altro caso il valore dell’esempio è grande e la comunicazione/educazione avviene quando “il filosofo vive la propria filosofia e non si limita ad insegnarla”. E non solo: egli deve lasciare libero l’allievo, libero di andare oltre gli insegnamenti del maestro e formarsi delle proprie tavole dei valori, rifiutando il presente, l’attuale, per l’inattuale. …”si paga male un maestro, se si rimane sempre scolari… Come si vede, la Terza inattuale mostra l’immagine di educatore-comunicatore nella sua alta espressione di affrancatore delle profondità altrui e, nel rispetto del suo sentire, eleva a uomo speciale chi si spinge verso la “redenzione”, chi, come i filosofi, gli artisti e i santi, sa che se rimane attaccato alla vita, “non può volare, ma solo svolazzare”. Ma occorre impegnarsi per la creazione di una grande cultura, intesa come terreno fertile per la generazione del filosofo, dell’artista e del santo, e quindi per il compimento della natura. Purtroppo ci sono ostacoli che si oppongono alla realizzazione del fine della cultura quali, l’egoismo degli affaristi, dello Stato, l’esigenza di coloro che vogliono dissimulare un brutto contenuto con bella forma e l’egoismo della scienza. Ma se si educa a vivere per la verità e non della verità, non sottostando allo Stato, che vuole i suoi filosofi, tranquilli, che avvalorano le sue tesi, che non creano fastidi, e li paga per questo, allora si potrà evitare che l’uomo crolli sotto il peso soffocante delle tre M : del momento, dei modi di pensare, delle mode.
CONCLUSIONI
Dall’anali dei tre testi, mi pare di evincere che, sebbene in forme diverse, il problema dell’educativo vada affrontato col dialogo, con la comunicazione, cosicchè l’Io che cerca il Tu esce dalla prigionia del “solipsismo”, del “solitarismo” e giunge ad una collaborazione efficace per “dissigillare energie benefiche”
Ogni volta che si comunica, in realtà, c’è l’intenzione di far sì che l’interlocutore pensi o faccia qualcosa. Pertanto chi comunica, trasforma, inevitabilmente, la vita di chi ascolta.
Sia con la parola, con la sua grande forza persuasiva, esplicativa, evocativa, risanante…, sia con il silenzio, sia con la forma scritta, sia soprattutto con l’esempio, restando fedeli (contro tutto e tutti) a ciò che si sostiene (“Comunicazione d’esistenza” di Kierkegaard), la comunicazione e di conseguenza il dialogare, educa innanzitutto alla diversità, portando verso l’altro, che è come me, “un diverso” come me, perché unico, un cercante dialogico che ha parola e capacità d’amare; abitua a pensare, ma soprattutto, formando il pensiero alla criticità, pone le basi per scelte ragionate.
D’altronde, se amo, comunicando educherò all’amore e nell’amore, ciascun singolo che vorrà collaborare alla costruzione del proprio sapere.
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